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La filosofia della libertà – capitoli I e II

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TRADUZIONE DI FABIO ALESSANDRI (disponibile come stampa in proprio su richiesta)

I

L’agire umano cosciente

            L’uomo nel suo pensare ed agire è un essere spiritualmente libero o soggiace alla costrizione di una ferrea necessità di pure leggi di natura? A poche domande è stato rivolto tanto acume come a questa. L’idea della libertà della volontà umana ha trovato un gran numero di caldi sostenitori come di agguerriti oppositori. Ci sono uomini che nel loro pathos morale accusano di essere uno spirito limitato chi nega un fatto così evidente come la libertà. Altri al contrario ritengono sia il colmo della non scientificità credere che le leggi di natura non valgano nel campo dell’agire e del pensare umano. La stessa cosa viene dichiarata tanto il bene più prezioso dell’umanità quanto la più grande illusione. Venne impiegato infinito acume per spiegare come la libertà umana si concili con l’operare della natura, alla quale anche l’uomo appartiene. Non minore è lo sforzo con cui d’altra parte si è tentato di rendere comprensibile come sia potuta sorgere un’idea così assurda. Chiunque non abbia come tratto saliente del suo carattere il contrario della profondità sente che qui si ha a che fare con una delle più importanti domande della vita, della religione, della prassi e della scienza. E appartiene ai tristi segni della superficialità del pensare odierno che un libro che vuole fondare una «nuova fede» partendo dai risultati della più recente indagine sulla natura (David Friedrich Strauss, Der alte und der neue Glaube[1]) riguardo a questa domanda non contenga che queste parole: «Non dobbiamo qui occuparci della questione della libertà della volontà umana. La presunta indifferente libertà di scelta è stata sempre riconosciuta come un vuoto fantasma da ogni filosofia che fosse degna di tale nome; la determinazione del valore morale delle azioni e dei pensieri [Gesinnungen] umani non viene comunque pregiudicata da tale questione». Non riporto questo passo perché credo che il libro in cui si trova abbia uno speciale significato, ma perché mi pare che esprima l’opinione alla quale sia in grado di sollevarsi la maggior parte dei contemporanei che pensano in merito alla questione considerata. Che la libertà non possa consistere nello scegliere assolutamente a propria discrezione tra due possibili azioni oggi sembra saperlo chiunque ritenga di aver superato un atteggiamento scientifico infantile. Si ritiene che sia sempre presente un ben determinato motivo per il quale si porta a compimento proprio una determinata azione tra più azioni possibili.

            Questo appare chiaro. Tuttavia fino ad oggi i principali attacchi degli avversari della libertà si rivolgono solo contro la libertà di scelta. Herbert Spencer, le cui opinioni acquistano di giorno in giorno maggior diffusione, dice (Herbert Spencer, Die Prinzipien der Psychologie[2], ed. tedesca del dr. B Vetter, Stoccarda 1882): «Ma che ogni uomo possa anche a piacere desiderare o non desiderare, ciò che costituisce il vero principio del dogma della libera volontà, viene indubbiamente smentito tanto dall’analisi della coscienza quanto dal contenuto dei capitoli precedenti (della psicologia)». Dallo stesso punto di vista muovono anche altri nel combattere il concetto della libera volontà. Tutte le considerazioni relative si trovano in germe in Spinoza. Ciò che egli espone in modo chiaro e semplice contro l’idea della libertà venne da allora ripetuto infinite volte, soltanto celato per lo più nelle dottrine teoriche più cavillose, così che diventa difficile riconoscere il semplice corso dei pensieri, l’unico che abbia davvero importanza. Scrive Spinoza in una lettera dell’ottobre o del novembre 1674: «Io chiamo infatti libera la cosa che esiste ed agisce per semplice necessità della sua natura e chiamo forzata quella che viene determinata ad esistere ed agire in modo fisso e preciso da qualcosa d’altro. Così per esempio Dio esiste, seppure necessariamente, tuttavia in modo libero, poiché egli esiste solo per necessità della sua natura. Allo stesso modo Dio conosce se stesso e tutto il resto liberamente, poiché deriva solo dalla necessità della sua natura che egli conosca tutto. Vedete dunque che io pongo la libertà non in un libero decidere, ma in una libera necessità.

            Ma ora vogliamo scendere alle cose create che vengono tutte determinate ad esistere ed agire in modo fisso e preciso da cause esterne. Per comprendere meglio ciò vogliamo rappresentarci una cosa molto semplice. Una pietra, per esempio riceve da un agente esterno che la colpisca una certa quantità di moto grazie alla quale essa continua necessariamente a muoversi dopo che la spinta dell’agente esterno è cessata. Questo mantenersi in movimento della pietra è perciò forzato e non necessario, poiché deve essere determinato dall’intervento di una causa esterna. Ciò che qui vale per la pietra vale anche per ogni altra cosa singola, comunque essa sia strutturata e adatta ad una molteplicità di usi; ogni cosa cioè viene determinata necessariamente ad esistere ed agire in modo fisso e preciso da una causa esterna.

      Immaginate ora per favore che la pietra mentre si muove pensi e sappia di sforzarsi per quanto può di proseguire nel suo movimento. Questa pietra, cosciente unicamente del suo sforzo e niente affatto indifferente nel comportamento, crederà di essere del tutto libera e di continuare a muoversi per nessun altro motivo se non perché essa lo vuole. Questa però non è altro che quella libertà umana che tutti ritengono di avere e che consiste nel fatto che gli uomini hanno coscienza solo dei loro desideri, ma non conoscono le cause che li determinano. Così crede il bambino di desiderare liberamente il latte, il ragazzo furibondo di pretendere liberamente la vendetta e il pavido la fuga. Inoltre crede l’ubriaco di dire per libera decisione ciò che, una volta tornato sobrio, avrebbe volentieri taciuto; e poiché in tutti gli uomini questo pregiudizio è innato, non è facile liberarsene. Infatti se anche l’esperienza insegna a sufficienza che gli uomini possono controllare in misura minima i loro desideri e che mossi da opposte passioni vedono il meglio e fanno il peggio, tuttavia essi si ritengono liberi per il fatto che desiderano meno intensamente alcune cose e che alcuni desideri possono venire frenati facilmente dal ricordo di altri ai quali si pensa spesso».

            Poiché qui si ha di fronte un’opinione espressa in modo chiaro e determinato sarà anche più facile scoprire l’errore fondamentale che in essa si nasconde. Con la stessa necessità con la quale una pietra si muove in seguito ad una spinta l’uomo deve compiere un’azione se vi viene spinto da un motivo qualsiasi. Solo per il fatto che l’uomo ha coscienza della sua azione egli si ritiene il libero autore di essa. Egli però non si accorgerebbe di essere spinto da una causa che deve per forza seguire. L’errore in questo ragionamento è presto trovato. Spinoza e tutti quelli che pensano come lui non si accorgono che l’uomo non solo ha coscienza della propria azione, ma può anche averne delle cause dalle quali egli è spinto. Nessuno contesterà che il bambino non sia libero quando desidera il latte, che non lo sia l’ubriaco quando dice delle cose delle quali più tardi si pente. Ambedue non sanno nulla delle cause attive nelle profondità del loro organismo e sotto la cui incontrastabile costrizione si trovano. Ma è giustificato mettere sullo stesso piano azioni di questo tipo con altre per le quali l’uomo non solo è cosciente del suo agire, ma anche dei motivi che ad esso lo spingono? Sono forse le azioni dell’uomo di un solo tipo? Le azioni del combattente sul campo di battaglia, del ricercatore scientifico in laboratorio, dell’uomo di Stato nelle complicate faccende diplomatiche possono essere poste dal punto di vista scientifico sullo stesso piano di quelle del bambino che desidera il latte? È ben vero che la soluzione di un problema si tenta meglio là dove la cosa è più semplice, ma la scarsa capacità di discernimento ha portato ad un’infinita confusione. E c’è davvero una profonda differenza se io so perché faccio qualcosa, oppure se non lo so. Questa sembra in un primo momento una verità del tutto ovvia. E tuttavia gli oppositori della libertà non domandano mai se un motivo del mio agire che io riconosca e comprenda costituisca per me una costrizione nello stesso senso del processo organico che spinge il bambino a piangere per il latte.

    Eduard von Hartmann, nella sua Phänomenologie des sittlichen Bewusstseins[3] a pag. 451, sostiene che il volere umano dipende da due fattori principali: dai motivi e dal carattere. Se si è dell’opinione che tutti gli uomini siano uguali, o che la loro diversità sia irrilevante, allora il loro volere appare determinato da fuori, dalle circostanze che vengono loro incontro. Ma se si considera come uomini diversi facciano di una rappresentazione il motivo del loro agire solo quando il loro carattere sia tale da venire spinto al desiderio dalla rappresentazione corrispondente, allora l’uomo appare determinato da dentro e non da fuori. Ora poiché l’uomo, conformemente al suo carattere, deve prima fare di una rappresentazione a lui imposta dall’esterno un motivo, crede di essere libero, vale a dire indipendente da motivi esteriori. La verità però, secondo Eduard von Hartmann, è che «se anche siamo noi stessi ad elevare le rappresentazioni a motivi, non lo facciamo tuttavia arbitrariamente, ma secondo la necessità della nostra disposizione caratterologica, dunque tutt’altro che liberamente». Anche qui si passa sotto silenzio la differenza esistente tra motivi che io lascio agire su di me solo dopo averli compenetrati con la mia coscienza e motivi che seguo senza averne una chiara coscienza.

            E questo conduce direttamente al punto di vista dal quale deve venire considerata la questione. Può la domanda circa la libertà del nostro volere essere in generale posta unilateralmente di per sé? E in caso contrario con quale altra deve di necessità venire collegata?

            Se c’è una differenza tra un motivo cosciente del mio agire ed un impulso incosciente, allora il primo darà luogo ad una azione che deve venire giudicata diversamente da un’altra scaturita da un cieco impulso. La domanda riguardo tale differenza sarà dunque la prima. E il modo in cui noi ci dovremmo porre di fronte alla vera e propria questione della libertà dipenderà anzitutto dalla risposta a quella prima domanda.

            Cosa significa conoscere i motivi del proprio agire? Questa domanda è stata considerata troppo poco perché purtroppo si è sempre diviso in due ciò che è un tutto indivisibile: l’uomo. Si è distinto l’uomo che agisce da quello che conosce, trascurando con ciò quel che importa sopra ogni altra cosa: l’uomo che agisce in virtù della sua conoscenza.

            Si dice: l’uomo è libero se è unicamente sotto il dominio della sua ragione e non sotto quello degli istinti animali. O anche: libertà significa poter determinare la propria vita e il proprio agire secondo scopi e risoluzioni.

            Ma con considerazioni simili non si giunge a nulla poiché la questione è appunto se la ragione, se scopi e risoluzioni esercitino sull’uomo una costrizione allo stesso modo degli istinti animali. Se una decisione ragionevole sorge in me senza la mia partecipazione proprio con la stessa necessità con la quale sorgono in me fame e sete, allora io la posso seguire solo di necessità e la mia libertà è un’illusione.

            Secondo un altro luogo comune essere liberi non significa poter volere ciò che si vuole, ma poter fare ciò che si vuole. Il filosofo poeta Robert Hamerling ha esposto questo pensiero in modo stringente nella Atomistik des Willens[4]: «L’uomo può senz’altro fare ciò che vuole – ma non può volere ciò che vuole, poiché la sua volontà è determinata da motivi! – Non può volere ciò che vuole? Si considerino più da vicino queste parole. C’è in esse un senso ragionevole? La libertà del volere dovrebbe dunque consistere nel poter volere qualcosa senza ragione, senza motivo? Ma cosa significa volere se non avere un motivo per fare o tendere a questo piuttosto che a quello? Volere qualcosa senza una ragione, senza un motivo vorrebbe dire volere qualcosa senza volerlo. Al concetto di volontà è inseparabilmente legato quello di motivo. Senza un motivo determinante la volontà è una vuota facoltà: solo per mezzo del motivo essa diventa attiva e reale. È dunque assolutamente giusto dire che la volontà umana non sia “libera”, in quanto la sua direzione è sempre determinata dal motivo più forte. Ma d’altro canto si deve ammettere che è assurdo di fronte ad una tale «non libertà» parlare di una pensabile “libertà” della volontà che consisterebbe nel poter volere ciò che non si vuole». (Atomistik des Willens, vol. 2, pag. 213 sg.).

            Anche qui si parla in generale di motivi senza badare alla differenza tra motivi coscienti e motivi incoscienti. Se un motivo agisce su di me ed io sono costretto a seguirlo perché esso si dimostra il «più forte» tra gli altri, allora il pensiero della libertà cessa di avere un senso. Come può avere per me un significato il fatto che io possa o non possa fare qualcosa, se io vengo costretto a fare ciò dal motivo? Quel che importa in primo luogo non è che io possa o non possa fare qualcosa quando il motivo ha agito su di me, ma piuttosto se esistano solo motivi che agiscono con necessità vincolante. Se io devo volere qualcosa mi sarà se mai del tutto indifferente poterlo anche fare. Se a causa del mio carattere e delle circostanze dominanti nel mio ambiente mi si impone un motivo che si rivela irragionevole al mio pensare dovrei essere addirittura felice di non poter fare ciò che voglio.

            Quel che importa non è che io possa portare ad effetto una decisione presa, ma come essa sorga in me.

            Ciò che distingue l’uomo da tutti gli altri esseri organici si fonda sul suo pensare razionale. Egli ha in comune con gli altri organismi l’essere in attività. Non si guadagna niente se per chiarire il concetto di libertà per l’agire umano si cercano analogie nel mondo animale. La moderna scienza naturale ama simili analogie. E quando le riesce di trovare negli animali qualcosa di simile al comportamento umano crede di avere toccato la più importante questione della scienza dell’uomo. A quali equivoci porti questa opinione si vede per esempio nel libro Die Illusion der Willensfreiheit[5] di Paul Rée (1885), nel quale l’autore (a pag. 5) a proposito della libertà dice: «Che il movimento della pietra ci appaia necessario mentre la volontà dell’asino no è facile da spiegare. Le cause che muovono la pietra sono esteriori e visibili. Invece le cause grazie alle quali l’asino vuole sono interiori e invisibili; tra noi e il luogo del loro agire si trova il cranio dell’asino (…) Non si vede la determinazione causale e si ritiene perciò che essa non ci sia. Il volere, si dice, è sì la causa del girarsi (dell’asino), ma è incondizionato; è un inizio assoluto». Dunque anche qui di nuovo si ignorano semplicemente le azioni dell’uomo per le quali egli abbia coscienza dei motivi del suo agire; infatti Rée spiega che «tra noi ed il luogo del loro agire si trova il cranio dell’asino». Rée, a giudicare da queste sue parole, non ha neppure sentore del fatto che esistano azioni non dell’asino, ma dell’uomo, per le quali tra noi e l’azione si trovi il motivo divenuto cosciente. Egli lo dimostra ancora qualche pagina più avanti con le parole: «Noi non percepiamo le cause per mezzo delle quali viene determinato il nostro volere e perciò riteniamo che esso non sia affatto determinato causalmente».

            Questi esempi sono sufficienti a dimostrare come molti combattano la libertà senza sapere affatto cosa essa sia.

            È del tutto ovvio che non possa essere libera un’azio-ne della quale colui che la compie non sappia perché la compie. Ma come stanno le cose con un’azione della quale ci siano noti i motivi? Ciò ci conduce alla domanda: qual è l’origine e il significato del pensare? Poiché senza la conoscenza dell’atti-vità pensante dell’anima non è possibile farsi un concetto del conoscere qualcosa, dunque anche del conoscere un’azio-ne. Se noi riconoscessimo cosa significa in generale il pensare sarebbe anche facile chiarire che ruolo esso abbia nell’agire umano. «È il pensare che trasforma l’anima, di cui anche l’animale è dotato, in spirito». Così dice giustamente Hegel; perciò il pensare darà la sua impronta caratteristica anche all’agire umano.

            In nessun caso si deve pensare che tutto il nostro agire derivi solo dalla sobria riflessione della nostra ragione. Sono ben lungi dal volere ritenere umane nel senso più alto solo quelle azioni che derivano dal giudizio astratto. Ma non appena il nostro agire si solleva dall’ambito della soddisfazione dei puri istinti animali, i nostri motivi sono sempre intessuti di pensieri. Amore, compassione, patriottismo sono impulsi dell’agire che non si possono risolvere in freddi concetti intellettuali. Si dice che qui il cuore, l’anima facciano valere i loro diritti. Senza dubbio, ma il cuore e l’anima non creano i motivi dell’agire. Essi li presuppongono e li accolgono nella loro sfera. Nel mio cuore sorge la compassione se nella mia coscienza è sorta la rappresentazione di una persona che suscita compassione. La via al cuore passa attraverso la testa. Neanche l’amore fa eccezione. Quando non è la semplice esplicazione dell’istinto sessuale esso riposa sulle rappresentazioni che noi ci facciamo dell’essere amato. E quanto più idealistiche sono queste rappresentazioni, tanto più beatificante è l’amore. Anche qui il pensiero è padre del sentimento. Si dice che l’amore renda ciechi per i difetti dell’essere amato. Si può anche considerare la cosa al contrario e dire che l’amore apre gli occhi per le qualità dell’essere amato. Molti passano senza accorgersene di fronte a quelle qualità. Uno le vede e proprio per questo si risveglia l’amore nella sua anima. Che cos’altro ha fatto se non formarsi una rappresentazione di qualcosa di cui cento altri non ne hanno alcuna? Essi non hanno l’amore perché manca loro la rappresentazione.

            Possiamo considerare la cosa come vogliamo: deve divenire sempre più chiaro che la domanda riguardo all’essenza dell’agire umano presuppone quella dell’origine del pensare. Mi rivolgo perciò anzitutto a questa questione.


[1] La vecchia e la nuova fede

[2] I principi della psicologia

[3] Fenomenologia della coscienza morale

[4] Atomistica della volontà

[5] L’illusione della libertà del volere

II

L’impulso fondamentale alla scienza

«Zwei Seelen wohnen, ach! In meiner Brust,

Die eine will sich von der andern trennen;

Die eine hält in derber Liebeslust

Sich an die Welt mit klammernden Organen;

Die andre hebt gewaltsam sich vom Dust

Zu den Gefilden hoher Ahnen.[1]»

             (Goethe, Faust I, 1112-1117)

            Con queste parole Goethe esprime un tratto caratteristico profondamente radicato nella natura umana. L’uomo non è un essere organizzato unitariamente. Egli esige di continuo più di quanto il mondo spontaneamente gli dà. La natura ci ha dato dei bisogni; tra questi ce ne sono alcuni la cui soddisfazione essa lascia alla nostra attività. I doni concessici sono abbondanti, ma ancora più abbondanti sono i nostri desideri. Sembriamo nati all’insoddisfazione. Il nostro impulso conoscitivo è solo un caso particolare di tale insoddisfazione. Noi guardiamo un albero due volte. La prima volta vediamo i suoi rami fermi, la seconda in movimento. Questa osservazione non ci soddisfa. Perché l’albero ci si presenta prima fermo e poi in movimento? Così domandiamo. Ogni sguardo alla natura produce in noi una serie di domande. Ogni manifestazione che ci viene incontro ci pone insieme un compito. Ogni esperienza diventa per noi un enigma. Vediamo uscire dall’uovo un essere simile a quello che l’ha generato e ci domandiamo quali siano i motivi di quella somiglianza. Osserviamo in un essere vivente crescita e sviluppo fino ad un certo grado di perfezione e cerchiamo le condizioni di tale esperienza. Non siamo mai soddisfatti di ciò che la natura offre ai nostri sensi. Ovunque cerchiamo ciò che chiamiamo spiegazione dei fatti.

            Ciò che noi cerchiamo nelle cose e che va al di là di quel che ci è dato immediatamente divide in due tutto il nostro essere; diveniamo così coscienti della contrapposizione tra noi ed il mondo. Ci poniamo come esseri indipendenti di fronte al mondo. L’universo ci appare nei due termini contrapposti Io e Mondo.

            Noi istituiamo questa separazione tra noi ed il mondo non appena la coscienza riluce in noi. Ma non ci abbandona mai il sentimento di appartenere comunque al mondo, dell’esistenza di un nesso che ci lega ad esso, di essere entità non fuori dall’universo, ma al suo interno.

            Questo sentimento produce l’anelito a superare la contrapposizione. E l’intero anelito spirituale dell’umanità consiste in sostanza nel superamento di tale contrapposizione. La storia della vita spirituale è una continua ricerca dell’unità tra noi ed il mondo. Religione, arte e scienza perseguono in ugual misura questo scopo. Il fedele cerca nella rivelazione di cui Dio lo rende partecipe la soluzione dell’enigma del mondo postogli dal suo io, insoddisfatto del semplice mondo fenomenico. L’artista cerca di infondere nella materia le idee del suo io per conciliare con il mondo esteriore ciò che vive nella sua interiorità. Anche egli si sente insoddisfatto dal semplice mondo dei fenomeni e cerca di imprimere in esso quel qualcosa in più che il suo io, andando al di là di esso, nasconde. Il pensatore cerca le leggi dei fenomeni, egli aspira a compenetrare pensando ciò che sperimenta osservando. Solo quando abbiamo fatto del contenuto del mondo il nostro contenuto di pensiero, solo allora ritroviamo il nesso dal quale noi stessi ci siamo allontanati. Vedremo più avanti che questo scopo viene raggiunto solo se il compito del ricercatore scientifico viene inteso molto più profondamente di quanto non avvenga nella maggioranza dei casi. L’intera situazione qui presentata ci appare in una manifestazione storica: nella contrapposizione tra la concezione unitaria del mondo o monismo e la teoria dei due mondi o dualismo. Il dualismo rivolge lo sguardo solo alla separazione tra io e mondo compiuta dalla coscienza umana. Tutto il suo anelito è un impotente tentativo di riconciliare questi opposti, che chiama ora spirito e materia, ora soggetto e  oggetto, ora pensare e manifestazione. Esso ha la sensazione che debba esserci un ponte fra i due mondi, ma non è in grado di trovarlo. In quanto l’uomo si sperimenta come «io» non può fare a meno di pensare questo «io» dalla parte dello spirito; ed in quanto contrappone a questo io il mondo, deve considerare come appartenente a quest’ultimo il mondo percettivo dato ai sensi, il mondo materiale. Con ciò l’uomo stesso si pone nella contrapposizione tra spirito e materia e deve farlo in quanto il suo proprio corpo appartiene al mondo materiale. Così l’«io» è parte dello spirituale; le cose ed i processi materiali percepiti dai sensi appartengono al «mondo». L’uomo deve ritrovare tutti gli enigmi che si riferiscono a spirito e materia nell’enigma fondamentale del suo proprio essere. Il monismo volge lo sguardo solo all’unità e cerca di negare o di cancellare le contrapposizioni esistenti. Nessuna delle due concezioni può soddisfare, poiché non rendono giustizia ai fatti. Il dualismo vede spirito (io) e materia (mondo) come due entità fondamentalmente diverse e non può perciò comprendere come possano agire l’una sull’altra. Come può lo spirito sapere quel che succede nella materia, se la natura propria di quest’ultima gli è completamente estranea? O come può esso, a partire da simili presupposti, agire sulla materia, così da trasformare le sue intenzioni in fatti? Vennero formulate le ipotesi più acute e più assurde per risolvere tali questioni. Ma fino ad oggi anche per il monismo la situazione non è molto migliore. Esso ha cercato finora di sostenersi in tre modi: o nega lo spirito e diviene materialismo, o nega la materia per cercare la sua salvezza nello spiritualismo; oppure ritiene che fin nel più semplice essere del mondo materia e spirito siano inscindibilmente uniti, così che non ci si debba per nulla stupire se nell’uomo si manifestano queste due modalità dell’esistenza che in nessun luogo sono divise.

            Il materialismo non può mai dare una spiegazione soddisfacente del mondo, poiché ogni tentativo di spiegazione deve cominciare col formarsi pensieri sulle manifestazioni del mondo. Il materialismo perciò ha inizio con il pensiero della materia o dei processi materiali. Con ciò esso ha già dinanzi a sé due ordini di fatti: il mondo materiale e i pensieri su di esso. Esso cerca di afferrare questi ultimi considerandoli come un processo puramente materiale. Esso crede che il pensare nel cervello si produca all’incirca come la digestione negli organi animali. Come ascrive alla materia effetti meccanici e organici, così le attribuisce anche la  facoltà, in determinate circostanze, di pensare. Non si accorge di aver così semplicemente spostato il problema altrove. Invece che a se stesso [all’uomo], ascrive alla materia la facoltà di pensiero. E con ciò esso è di nuovo al suo punto di partenza. Come giunge la materia a pensare sul suo proprio essere? Perché non è semplicemente soddisfatta di sé e non accetta senz’altro la propria esistenza? Il materialista ha allontanato lo sguardo dal soggetto determinato, dal nostro proprio io, ed è giunto ad un’entità indeterminata e nebulosa. E qui gli viene incontro lo stesso enigma. La concezione materialistica non è in grado di risolvere il problema, ma solo di spostarlo.

            Come stanno le cose con la concezione spiritualistica? Lo spiritualista puro nega la materia nella sua esistenza autonoma e la concepisce solo come prodotto dello spirito. Se egli applica questa concezione del mondo alla soluzione dell’enigma della propria entità umana si vede messo alle strette. All’io, che può essere posto dalla parte dello spirito, sta immediatamente di fronte il mondo sensibile. A quest’ultimo pare non si apra un accesso spirituale, esso deve essere percepito e sperimentato dall’io mediante processi materiali. L’«io» non trova tali processi materiali in sé, se vuole riguardarsi solo come entità spirituale. In ciò che egli elabora spiritualmente non è mai contenuto il mondo dei sensi. Sembra che l’«io» debba ammettere che il mondo gli rimarrebbe inaccessibile, se egli non si ponesse in rapporto con esso in modo non spirituale. Allo stesso modo, quando noi ci mettiamo all’opera, dobbiamo tradurre le nostre intenzioni in realtà con l’aiuto di sostanze e di forze materiali. Siamo dunque ricondotti al mondo esteriore. Lo spiritualista più radicale o, se si vuole, il pensatore che grazie al suo assoluto idealismo si presenta come spiritualista radicale è Johann Gottlieb Fichte. Egli tentò di far derivare dall’ «io» l’intero edificio del mondo. Ciò che in realtà gli è riuscito è di presentare una poderosa immagine di pensiero del mondo priva di qualsivoglia contenuto di esperienza. Così come al materialista non è possibile negare lo spirito, altrettanto poco è possibile allo spiritualista sbarazzarsi del mondo materiale esteriore.

            Poiché l’uomo, se rivolge la conoscenza all’«io», percepisce in un primo momento l’azione di questo «io» nella configurazione in pensieri del mondo delle idee, la concezione del mondo ad indirizzo spiritualistico, nel rivolgersi alla propria entità umana, può sentirsi tentata di riconoscere dello spirito solo questo mondo delle idee. In questo modo lo spiritualismo diviene idealismo unilaterale. Esso non arriva a cercare mediante il mondo delle idee un mondo spirituale, ma vede nel mondo stesso delle idee il mondo spirituale. A causa di ciò esso è portato a dover rimanere con la sua concezione del mondo come incatenato all’interno dell’azione dell’«io» stesso.

            Una sottospecie notevole di idealismo è la concezione di Friedrich Albert Lange, così come egli l’ha esposta nella sua molto letta Geschichte des Materialismus[2]. Egli ammette che il materialismo ha ragione quando spiega tutte le manifestazioni del mondo, compreso il nostro pensare, come prodotto di processi puramente materiali; solo che la materia stessa ed i suoi processi non sarebbero altro che il prodotto del nostro pensare. «I sensi ci danno (…) effetti delle cose, non immagini fedeli o addirittura le cose stesse. A questi semplici effetti però appartengono anche gli stessi sensi, compreso il cervello e i movimenti molecolari in esso pensati». Il nostro pensare cioè viene prodotto dai processi materiali e questi a loro volta dal pensare dell’«io». La filosofia di Lange perciò non è altro che la storia tradotta in concetti del prode Münchhausen che sta sospeso in aria tenendosi per il proprio codino.      

            La terza forma di monismo è quella che vede nell’essere più semplice (l’atomo) già unite le due entità, materia e spirito. Con ciò però non si ottiene altro che lo spostamento in un diverso campo della domanda che sorge in realtà nella nostra coscienza. Come arriva l’essere semplice a manifestarsi in modo duplice, se è un’unità indivisa?

            Di fronte a tutti questi punti di vista si deve far notare che la contrapposizione fondamentale e originaria ci viene incontro innanzitutto nella nostra propria coscienza. Siamo noi stessi ad affrancarci dal terreno materno della natura e a contrapporci come «io» al «mondo». Goethe esprime ciò in modo classico nel suo saggio La natura, anche se il suo stile può apparire in un primo momento per nulla scientifico: «Noi viviamo in mezzo ad essa (la natura) e le siamo estranei. Essa ci parla incessantemente e non ci rivela il suo segreto». Ma Goethe conosce anche il rovescio di ciò: «Tutti gli uomini sono in essa ed essa è in tutti».

            Come è vero che ci siamo estraniati dalla natura, così è vero che sentiamo di essere in essa e di appartenerle. Può essere solo il suo proprio agire a vivere anche in noi.

            Dobbiamo ritrovare il cammino che ci riconduca ad essa. Una semplice riflessione può mostrarci questo cammino. Noi ci siamo sì separati dalla natura, ma dobbiamo tuttavia aver portato nel nostro proprio essere qualcosa di essa. Dobbiamo cercare in noi stessi questo essere di natura e allora ritroveremo anche il nesso. Ciò sfugge al dualismo. Esso considera l’interiorità umana come un’entità spirituale del tutto estranea alla natura, che cerca di legare a quest’ultima. Non c’è da stupirsi che non possa trovare l’elemento di unione. Possiamo trovare la natura fuori di noi solo se la riconosciamo prima in noi. Ciò che nella nostra propria interiorità è uguale ad essa ci sarà di guida. Con ciò la nostra strada è tracciata. Non vogliamo speculare sulla reciproca azione di natura e spirito, ma vogliamo scendere nella profondità del nostro essere proprio per trovarvi quegli elementi che abbiamo portato con noi nella nostra fuga dalla natura.

            L’esame del nostro essere deve portarci la soluzione del-l’enigma. Noi dobbiamo giungere ad un punto in cui possiamo dirci: qui non siamo più semplicemente «io», qui c’è qualcosa che è più che «io».             Mi aspetto che qualcuno, avendo letto fin qui, non trovi le mie considerazioni adeguate «allo stato attuale della scienza». A ciò posso solo ribattere che finora non volevo avere a che fare con alcun risultato scientifico, ma solo con la semplice descrizione di ciò che ogni uomo sperimenta nella propria coscienza. Se nel far questo vi sono entrate anche singole frasi sul tentativo di riconciliazione della coscienza col mondo, ciò ha solo lo scopo di rendere chiari i fatti veri e propri. Perciò non mi sono preoccupato di adoperare singole espressioni come «io», «spirito», «mondo», «natura» e così via nel modo preciso al quale sono abituate la psicologia e la filosofia. La coscienza ordinaria non conosce le sottili distinzioni della scienza e finora si è trattato solo di constatare fatti della vita quotidiana. Non m’interessa come la scienza abbia finora interpretato la coscienza, ma come essa si manifesti di minuto in minuto


[1] «Due anime, ahimè! abitano nel mio petto, l’una vuole separarsi dall’altra; questa in cruda voluttà d’amore s’aggrappa al mondo con organi tenaci; quella si solleva potentemente dalla polvere verso i campi dei venerandi avi.»

[2] Storia del materialismo

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